Il Chris Gardner di Battipaglia è un ragazzo che ha scelto di vivere la vita con un sorriso grosso così stampato in faccia. Christian Manfredini è stato uno dei primi italiani di colore a scendere in campo negli anni 90, quando cori e striscioni discriminatori venivano liquidati come semplice folklore da stadio. “Non ho mai subito episodi sgradevoli, sarò sincero”. A cinque anni è stato portato via dalla Costa d’Avorio da una famiglia italiana che gli ha seminato la via per la felicità: lui quella strada l’ha seguita tutta, passo dopo passo, fino a trovare la sua bussola. Ha cominciato alla Juve, è stato uno dei protagonisti del Chievo dei miracoli, ha segnato al Real Madrid e risposto “a modo” a un taxista di Roma.
Partiamo dal presente, cosa fa Manfredini oggi?
“Commento le partite della Lega Pro per la Rai. È un lavoro che mi diverte. In realtà a me piace molto allenare, ma dopo il ritiro non mi sono mai cimentato seriamente”.
“Sono stato adottato da una famiglia di Battipaglia, vicino a Salerno. All’epoca non c’erano tanti bambini di colore, io venivo sempre visto in modo strano, come se fossi una novità. Non lo vedevo come qualcosa di brutto. I miei primi amici si meravigliavano per il mio colore della pelle, mia mamma mi diceva ‘ti guardano tutti perché sei bello’. Poi crescendo ho capito il perché”.
Che famiglia l’ha accolta?
“Fantastica. I miei genitori mi hanno sempre dato la serenità di poter decidere, anche di giocare a calcio a 500 metri da casa. Ho cominciato alla Spes Battipaglia, società che esiste ancora oggi, a volte mi capita di tornare per far allenare dei ragazzini. A 13 anni mi chiamò la Juve per un provino grazie a Sergio Secco, importante dirigente del settore giovanile. Mia mamma disse subito di no. Poi lo chiese a me, la guardai e neanche risposi. Mi lasciò seguire i miei sogni: quello fu il secondo atto di amore nei miei confronti. Il primo fu l’adozione”.
Come andarono i provini?
“A marzo andai a Roma a farli, eravamo migliaia. Da quei provini ne presero due, io ed Enzo Manzo, anche lui di Salerno. Era marzo, poi a giugno andai a fare una settimana di stage. Nell’agosto 1989 entrai definitivamente nel settore giovanile bianconero. Ho fatto un po’ tutti i ruoli: ho cominciato come centrale di difesa, ho proseguito come attaccante e mi sono affermato come esterno sinistro”.
Lo scudetto Primavera, Del Piero… Qualche flash in bianconero?
“Con la Primavera vinsi scudetto e Torneo di Viareggio. Del Piero era già nel giro della prima squadra, anche se qualche partita con noi la fece. Era di un altro livello, quando andò via Baggio non pensavo che potesse essere lui il suo erede. Io non ho mai debuttato in prima squadra, c’era troppa gente forte. Trapattoni non amava molto i giovani, lui era uno della vecchia guardia. Nel 1994, quando andai via, arrivò Lippi e da lì cominciarono a debuttare giovani, come Massimiliano Giacobbo. Per me il massimo è stato allenarmi con la prima squadra e fare una panchina contro il Piacenza in Serie A”.
Al Genoa, in Serie B, non cominciò benissimo la stagione.
“A Vicenza mi ruppi la spalla, era la seconda partita. Rimasi fermo tre mesi. Ricordo Marassi, stadio incredibile, tifo anche. Sembrava di stare in Inghilterra”.
Verona le ha cambiato la vita. Qual è stato il segreto di quel Chievo dei “miracoli”?
“La Juventus voleva mandarmi a Crotone, allenato da Cuccureddu, mio ex allenatore in Primavera. Io rifiutai perché stavo con una ragazza di Pistoia, se fossi andato a Crotone non l’avrei più vista. Così scelsi Verona. Il segreto di quel Chievo fu il lavoro, oltre a un gruppo straordinario. Perrotta, Corradi e Marazzina sono esplosi, a un certo punto giocavamo a memoria. Anche se i due condottieri di quel gruppo rimangono Eugenio Corini, leader del centrocampo, e Delneri. Senza loro due non sarebbe mai nato quel Chievo”.
La stagione 2001-2002 rimarrà nella storia.
“La qualificazione in Coppa Uefa a fine anno fu la ciliegina sulla torta. Eravamo una neopromossa, per due mesi e mezzo guardavamo tutti dall’alto verso il basso, Milan, Inter, Roma, Juve. Poi alla lunga i valori tecnici vennero fuori e, di conseguenza, calammo di rendimento. Ma dentro lo spogliatoio lo sapevamo. Vincemmo a San Siro contro l’Inter, fu una delle nostre migliori prestazioni”.
Potevate essere il Leicester d’Italia?
“Forse, ma le dico una cosa. Quando il Leicester vinse la Premier tutte le big fecero male. Per noi fu il contrario: le big partirono male e poi si ripresero alla lunga, di conseguenza noi calammo e finimmo quinti, che era come aver vinto uno scudetto. Oggi abbiamo ancora un gruppo Whatsapp e ci sentiamo spesso”.
Prova di verità: perché Lupatelli prese la 10?
“Nella distribuzione delle maglie a inizio anno nessuno prese la 10. Così arrivo Lupo e disse ‘è mia’. Noi all’inizio pensavamo stesse scherzando, e invece no. Lui era un personaggio eccentrico, quando era deciso su una cosa, la faceva. Per questo la 10”.
Due nomi, Eriberto e Delneri. Che tipo di personaggi sono stati?
“Il mister era una sorta di Zeman, pretendeva il massimo a livello fisico. Facevamo doppie sedute, mattina e pomeriggio. In campo eravamo una squadra battagliera, grintosa. E con la palla sapevamo sempre cosa fare. Eriberto è un amico, un tipo tranquillo e simpatico. Nessuno avrebbe mai immaginato della sua doppia identità. Io lo scoprii poco prima che la notizia uscisse. Me lo comunicò la Lazio quando firmai il contratto, visto che anche lui doveva trasferirsi con me. L’ho sentito poco tempo fa, ha scritto un libro”.
Nel 2003 vola in Spagna, all’Osasuna: un solo gol… al Real Madrid.
“Era la partita d’esordio, me la ricordo bene. Ho anche un aneddoto da raccontare. Io vivevo ancora in albergo, il giorno prima della partita andai a fare una passeggiata e al mio ritorno vidi polizia, transenne e migliaia di persone attorno al mio albergo. Sembrava fosse arrivato il presidente degli Stati Uniti. Feci per entrare ma mi bloccarono, pensavano fossi uno qualunque. Alla fine, entrai e la sera cenai da solo al ristorante con a fianco i giocatori del Real, Figo, Zidane, Raul… Il giorno dopo gli segnai contro”.
Ha subito qualche episodio di razzismo?
“Episodi pesanti in realtà no. Io ho avuto la fortuna di cominciare a giocare alla Juventus, tutti mi vedevano come ‘calciatore’ e non come ‘uomo nero’. Un aneddoto divertente però ce l’ho…”
Dica pure.
“Ero in giro per Roma, a un certo punto vidi un taxi e lo chiamai. Mi si avvicinò con dentro già una persona e io domandai: ‘Quando esce la signora posso salire?’. Il taxista mi guardò con aria diffidente e rispose: ‘Eh, tu stare calmo, tu aspettare'. A quel punto mi si chiuse un po’ la vena e risposi: ‘Ascoltami, io voglio il taxi, se tu non vuoi prendo te, il taxi e ce ne andiamo assieme’. Oggi a 50 anni, se mi ricapitasse, non direi mai una cosa del genere. In quel momento ero famoso, mi sentivo grande. Non una bella scena da parte mia”.
Alla Lazio si divertiva a fare scommesse con Inzaghi e Tare: chi vinceva?
“Ogni volta c’era un vincitore diverso. Ci giocavamo 50 euro su chi riusciva a bere tre litri di acqua o tè freddo in due minuti. Ci divertivamo un sacco, non sa quante risate”.
Lotito l’ha messa fuori rosa nel 2011. Che rapporto aveva con lui?
“Claudio è sempre stata una persona diretta. Lui è uno che vive lo scontro, se non hai forza contrattuale, ti schiaccia. Non guarda in faccia nessuno, se non ti vuole, non ti vuole. Non dico che è un metodo sbagliato, però è chiaro che le cose si possono affrontare in modo diverso. Amen. Alla Lazio ho vissuto anni bellissimi, ho tanti ricordi positivi”.
Capitolo infanzia: a cinque anni comincia una nuova vita in Italia.
Aveva anche Soviero in spogliatoio…
“Un pazzo, ma buono. Non lo dovevi far arrabbiare, se no distruggeva lo spogliatoio. Umanamente è sempre stato una brava persona, non controllava la rabbia. In allenamento cercavo il meno possibile il contatto con lui”.