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Calcio

Superga, la tragedia che rese immortale il Grande Torino

Gianluca Gasparini
Superga, la tragedia che rese immortale il Grande TorinoN/A
Il 4 maggio di 75 anni fa l'incidente aereo sulla collina torinese trasformò la squadra più forte di tutte, già leggendaria sul campo, in un gruppo di eroi. Oltre mezzo milione di persone partecipò ai funerali

Il silenzio, il cielo che diventava scuro, la folla. Immensa. Cinquecentomila persone, forse di più. Era il 6 maggio del 1949, un venerdì. Si fermava Torino, si era fermata l’Italia. Si svolgevano, nel tardo pomeriggio, i funerali delle vittime della tragedia di Superga. Nello schianto di due giorni prima, contro il terrapieno della Basilica sulla collina che sovrasta la città, aveva perso la vita una delle più forti squadre mai viste su un campo di calcio, quella granata, insieme ai suoi accompagnatori, a tre giornalisti e ai membri dell’equipaggio del trimotore G-212 delle Avio Linee Italiane. Trentun morti. Per poter essere seguito da più gente possibile, il corteo funebre aveva compiuto un giro lunghissimo. I feretri erano usciti da Palazzo Madama e, una volta caricati su alcuni camion, avevano imboccato via Roma, attraversato piazza San Carlo, raggiunto piazza Carlo Felice, girato in corso Vittorio Emanuele II, preso corso Re Umberto, via Alfieri, piazza San Giovanni e infine erano arrivati davanti al Duomo. Un milione di occhi piantati su quel percorso, e deserte tutte le altre strade. Al momento della benedizione la facciata della cattedrale aveva perso tutta la sua luce, era pallida, e così l’intera piazza. Si faticava a vedere. Come due giorni prima, in aria. Gli eroi son tutti giovani e belli, cantava Guccini. Chi ha esaltato le folle e muore, all’improvviso e così tragicamente, si trasforma automaticamente in leggenda.

La scomparsa cristallizza la bellezza dei gesti, la pulizia dei comportamenti, evita la parabola discendente e l’inevitabile invecchiamento, che non sempre si rivela felice. Ma a volte la trasformazione non serve, perché la leggenda è già in corso da un pezzo. Quel Torino aveva praticamente vinto il suo quinto scudetto consecutivo, giocava un calcio meraviglioso e prima di allora non si era visto in Italia niente del genere. Era una squadra nata da lontano, da quando Ferruccio Novo nell’estate del 1939 era diventato presidente e aveva iniziato a costruire il gruppo, pezzo per pezzo. Lo aveva fatto insieme a Roberto Copernico, titolare di un negozio di abbigliamento in città e consigliere fidato. Le tessere si erano incastrate come pianificato, e a un certo punto vennero fuori gli imbattibili. Bacigalupo era un signor portiere, che aveva rapidamente digerito l’amarezza di un Italia-Ungheria del 1947 in cui scesero in campo con la maglia azzurra 10 giocatori del Toro e, tra i pali, Sentimenti IV della Juve. Vincevano tantissimo ma senza segreti particolari. Contavano sulla forza della semplicità, in campo erano tosti e fuori andavano d’accordo. La città li amava e rispettava ma senza idolatrarli: Ossola e Gabetto erano proprietari di un bar in centro e quando non si allenavano passavano le ore con i clienti.

La squadra aristocratica e un po’ funambolica restava a quei tempi la Juventus, il Toro rappresentava la solidità concreta e vincente. Tant’è vero che durante la Guerra, per evitare la deportazione nelle industrie belliche in Germania, i granata vennero inquadrati come dipendenti della Fiat – che produceva utilitarie – mentre i bianconeri finirono con la Cisitalia, che creava modelli di design. Ci sono tutte quelle storie - vere peraltro - sui dieci minuti in cui decidevano di vincere le partite, sul ferroviere Bolmida che suonava la tromba e allora Mazzola si rimboccava le maniche e il destino della partita cambiava. Ma non serve esagerare con la retorica, talento e doti atletiche venivano riconosciute da tutti. Boniperti, l’uomo più juventino di sempre, raccontò: “Cos’era Mazzola? Era l’uomo che si materializzò, durante un derby, sulla linea della sua porta per fermare di tacco un pallone che avevo calciato a colpo sicuro e mi aveva ormai fatto gridare al gol, e pochi secondi dopo, mentre deluso rientravo a centrocampo e alzavo la testa chinata per la delusione, segnava un gol nell’altra porta”.

Era un gruppo di grandi atleti diventati campioni, ma restavano brave persone uscite dalla Guerra. Ammirate in Italia perché quella squadra, con le sue imprese, faceva tornare tutti a vivere. E invece proprio lei, di colpo, morì. Alle 17.02 di mercoledì 4 maggio l’equipaggio aveva chiamato per l’ultima volta la torre di controllo di Torino. Il pilota – che di cognome faceva Meroni, per dire come la storia granata sia piena di ricorsi del destino – contava di virare di 290 gradi di prua per allinearsi sulla pista di atterraggio. Ma il forte vento di libeccio aveva spostato la rotta dell’aereo e l’altimetro, guasto, segnava 2000 metri quando invece il G-212 viaggiava a 600. Di colpo, dalla nebbia mista a pioggia, sbucò la basilica. Alle 17.05 la torre di controllo chiamò l’equipaggio. Non ci fu risposta. I terzini erano Ballarin, forte fisicamente, e Maroso, dotato di classe come pochi. I granata giocavano con il “sistema”, cioè il WM (dove W e M rappresentano il modo in cui venivano disposti in campo i calciatori), e dunque davanti ai terzini stavano il classico Grezar da una parte e l’efficace Castigliano dall’altra, con in mezzo Rigamonti che passando da esuberante a ordinato risolse il problema del centromediano. In attacco, da destra a sinistra, Menti (ala dal gran tiro), Loik (quella che allora si definiva mezzala di fatica), Gabetto (centravanti che si muoveva molto ma segnava altrettanto), Valentino Mazzola (il fuoriclasse assoluto, capitano e fenomeno a tutto campo) e infine Ossola, il più tecnico e forse quello che si sarebbe meglio adattato al calcio di oggi, ricco di tattiche e schemi. Erano speciali anche le riserve: Tomà (il vice Maroso), Martelli (nel ruolo di Grezar), Fadini (mediano di classe) e poi in avanti il francese Bongiorni, Grava e Schubert, romeno nato a Budapest. Ad allenarli, negli anni, furono in diversi: Antonio Janni, Luigi Ferrero, Mario Sperone e poi l’inglese Leslie Lievesley affiancato come direttore tecnico dall’ungherese Egri Erbstein, che aveva ricoperto quel ruolo dal 1943.

Fonte: Gazzetta.it