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Gallinari, il predestinato figlio d’arte: niente anello, ma 16 anni con i più forti

Gazzetta

“Grazie, dal profondo del mio cuore”. Danilo Gallinari lo dice al basket nel suo messaggio d’addio, in cui sui social ha annunciato la fine di una carriera che l’ha portato al livello più alto. E il basket, quello italiano ed europeo, ma anche quello Nba, dice grazie a lui. Perché Danilo lascia a 37 anni come uno degli azzurri più forti di sempre, con quelle 777 partite spalmate in 16 anni nella lega più forte del mondo lì a testimoniarlo. Lascia come uno di quegli europei che hanno segnato un’epoca, che prima degli Giannis Antetokounmpo e dei Nikola Jokic che oggi fanno collezione di mvp hanno confermato che i talenti del Vecchio Continente non erano in Usa per fare da comparse, ma per essere protagonisti. E Gallinari sicuramente lo è stato.

Danilo ha smesso presto di essere solo il figlio di Vittorio, che prima di lui aveva portato il nome Gallinari nel basket. Quando si è dichiarato per il Draft Nba era già stato la stella di quell’Olimpia Milano in cui papà era diventato grande, il miglior giovane dell’Eurolega. E l’idea che a chiamarlo in Usa siano stati i New York Knicks, allenati allora da Mike D’Antoni che come Danilo aveva vestito la maglia numero 8 di Milano, aiutato da papà a renderla grande, sembrava il perfetto inizio di una nuova favola. Danilo l’America l’ha trovata subito, anche se la sua stagione da rookie è stata condizionata da un problema alla schiena. Da New York a Denver è stato il passaggio che l’ha portato a diventare qualcosa di più. E qui, aprile 2013, c’è il primo rimpianto: il crociato del ginocchio sinistro che salta in un movimento eseguito un milione di volte. Più di quello, l’anno e mezzo che ci è voluto per rimettersi in piedi. Il secondo rimpianto è l’infortunio con la Nazionale prima dell’Europeo 2022, del suo Europeo a Milano. Ancora il ginocchio sinistro, rotto prima di cominciare la stagione con i Boston Celtics in cui l’idea era andare a caccia del titolo. Da uomo squadra, da veterano, ma comunque da protagonista. Non aver vinto una medaglia con la Nazionale in un grande torneo resta il suo rimpianto più grande. Non cancella però quello che ha fatto nel basket, quello che i suoi 16 anni in Nba hanno significato per l’Italia, per l’Europa e la sua crescita.

Gallinari non ha vinto l’Nba come Marco Belinelli, non è stato prima chiamata assoluta al Draft come Andrea Bargnani. Come loro, però, è stato un simbolo. Di eccellenza italiana, di perseveranza, di capacità di guadagnarsi il rispetto dei più grandi campioni, di calcare il campo con loro da pari, di averne aiutato a crescere qualcuno. Due nomi su tutti: Nikola Jokic, che Gallo ha accolto in Nba nei suoi ultimi anni a Denver, e Shai Gilgeous-Alexander, di cui è stato compagno per due stagioni, prima ai Clippers e poi a Oklahoma City. Non è un caso se tutte le sue squadre oggi gli hanno tributato un omaggio: Gallo ha lasciato il segno dove è stato, molto più di quello che dicono le statistiche, molto più di quello che ha detto il campo. Se c’è un’intera generazione di nuovi talenti azzurri, quelli che il ct Luca Banchi ha aiutato a vincere con la Lituania, che ritiene possibile il sogno Nba pur partendo da Sant’Angelo Lodigiano, come ha fatto lui, il merito è anche di Danilo, di quello che ha fatto in Nba ben oltre le 777 partite, i 14,9 punti di media, o la finale di Eastern Conference giocata con Atlanta che resta il suo punto più alto nei playoff. È questo il suo lascito più grande. È per questo che, se lui ringrazia il basket oggi che smette, il basket italiano ringrazia lui.