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Pulisic e Akanji, un "flu game" come Jordan: super oltre la febbre

Gazzetta

Rifiutarsi di perdere. Non è cosa per tutti, ma tratto esclusivo degli agonisti più feroci, degli atleti più ossessionati. Di quelli più vincenti, appunto. Christian Pulisic e Manuel Akanji lo hanno appena ribadito al mondo del pallone. Sconfiggendo l’influenza, dimenticando la spossatezza, cancellandola dalla memoria come una app del passato che dà solo fastidio. Giganteggiando contro Torino e Liverpool nonostante i malanni di stagione, andando oltre i limiti fisici trascinati dall’adrenalina, dalla trance agonistica. Hanno fatto tornare in mente l’impresa di Michael Jordan, facendo come lui, “be like Mike” come (se) la cantavano le pubblicità dell’epoca, quella in cui il fenomeno dei canestri con la maglia dei Chicago Bulls incantava il mondo ridefinendo il concetto di impossibile nello sport. Contro Utah alle Finals 1997 in Gara 5 si presentò sul parquet che era uno straccio - intossicazione alimentare o virus non s’è mai davvero capito cosa lo affiggesse, col tempo i contorni di quelle gesta hanno assunto una mistica da leggenda che ha superato a destra la cronaca -, eppure di pura volontà, voglio fortissimamente voglio, seppe battere i Jazz e ipotecare quelle finali Nba. “Ci sono atleti che odiano perdere più di quanto amino vincere”. Le parole di Brad Stevens, il primo dirigente dei Boston Celtics, raccontano queste dinamiche meglio di qualunque altra descrizione.

L’attaccante del Milan non doveva neppure entrare in campo contro il Torino, debilitato dall’influenza. Poi il paracetamolo l’ha rimesso in piedi. Allegri, squalificato, dalla tribuna ha fatto partire la chiamata e il suo vice Landucci ha mandato dentro l’americano dalla panchina con i rossoneri sotto 1-2 contro i granata. Ingresso al 66’, pochi secondi dopo è subito arrivato il gol del pareggio del ragazzo di origini croate, da centro area, da attaccante autentico, sfruttando il cross da sinistra di Saelemaekers. Al 77’, poi, Pulisic, a cui l’entusiasmo del primo gol ha messo le ali - sembrava volare, altro che non reggersi in piedi - ha raccolto un cross da destra di Ricci e infilato in rete di sinistro il gol del 3-2 che ha completato il ribaltone e consegnato la vittoria al Milan. Vincere è la miglior medicina, panacea di tutti i mali. Akanji non ha potuto festeggiare un successo al 96’, ma in Champions League contro i Reds è stato gigantesco. Il difensore svizzero dell’Inter aveva saltato la rifinitura per influenza, pareva non poterci essere, quantomeno dall’inizio contro i campioni dell’ultima Premier League. E invece Chivu l’ha buttato dentro e lui non l’ha fatto pentire dell’azzardo. Anzi. Sei recuperi, quattro chiusure, oltre i numeri è stato un muro là dietro neutralizzando gli avanti “di nome” avversari, i vari Isak, Ekitike e Wirtz. Poi un rigore nel finale ha condannato al ko l’Inter, ma l’ex Manchester City è uscito tra gli applausi. Lui ha sconfitto i malanni, colosso d’acciaio.

11 giugno 1997, Delta Center, Salt Lake City. Gara 5 delle Finals, serie sul 2-2, i Jazz giocano in casa e hanno vinto due partite di fila. Hanno Karl Malone e John Stockton, hanno uno squadrone e l’inerzia favorevole, inseguono il primo titolo di franchigia di sempre. Sembra l’anno buono, il momento giusto, anche perché Jordan sta male. Chicago è la squadra campione in carica, ma quello con la maglia numero 23, il numero 1 del gioco, allora, sta davvero male. Si trascina, è debole, nel primo quarto non ci mette mano, segna appena 4 punti, i primi due canestri dei suoi. Poi pare sostituirlo la sua controfigura. Ma il cuore di un campione non va mai sottovalutato, come diceva Coach Tomjanovich. Mai. Jordan torna lui nel secondo periodo, segna 17 punti. D’orgoglio. Non bastano per far svoltare la partita però. E il suo 3° quarto è di nuovo da fantasma, appena due punti segnati e i Bulls dopo 36’ inseguono 67-72. Paiono non avere scampo quando finiscono sotto 69-77, di tanto in una gara a basso punteggio, di una fisicità che fa male a guardare. Però Jordan rifiuta di perdere. Non lo accetta. Punto. Jordan fa il Jordan, comunque. Segna 15 punti nel 4° periodo, a 25” dalla fine segna la tripla che regala la vittoria, 90-88, a Chicago che poi chiuderà la serie sul 4-2 due giorni dopo, a campi invertiti, conquistando il quinto titolo della propria storia, il penultimo dell’era Jordan. L’uomo che vola, sua Altezza, a fine partita, chiusa con 38 punti, non riesce neppure a camminare, Scottie Pippen, il secondo miglior giocatore di quei Bulls, lo deve sorreggere. Quella foto fa il giro del mondo. Quell’impresa fa la storia dello sport. Jordan dirà poi: “La cosa più difficile che abbia mai fatto. Ho rischiato di svenire pur di vincere”. Valeva il sacrificio, ne è fiero. L’ha fatto per se stesso, per vincere una sfida personale, l’ha fatto per i compagni di squadra, per i tifosi, per una città. Per rendere immortale un momento di basket. Brad Pitt nel film cult Moneyball si domandava: “Come si fa a non essere romantici, con il baseball?”. Girano tanti soldi, una marea di soldi, ma resta difficile non essere romantici quando si tratta di sport. Pulisic e Akanji ce l’hanno ricordato una volta di più. Non saranno Jordan, ma ci hanno saputo emozionare.