Se ci fosse ancora Pasolini. Quante volte questo rimpianto ha consolato il nostro disimpegno e quante volte abbiamo letto e ascoltato questa ipotesi impossibile e dunque senza conseguenze. Evocato, cercato, manipolato. Richiamato al lavoro davanti alla terra brulla, a qualche torto che il progresso non ha raddrizzato ma piuttosto deteriorato, a un’ingiustizia che la società non ha sanato, celebrato ai margini del mondo, guardando da lontano. Torna - resuscita dalla sua morte violentissima e oscura - trasformato in religione, per guidarci alla salvezza di un perenne senso di colpa. Come il tic di un’epoca che si potrebbe condannare per contraffazione: un attimo dopo l’invocazione, la testa cala di nuovo su piccoli schermi per piccolissime questioni. Non ci può essere, oggi, Pasolini: lui resta dov’è stato, dentro, sotto, al centro, ai bordi. C’era, e conosceva per esistenza. Le parole che usava le aveva conquistate con la vita, corrette in mezzo agli altri. Questa era l’autenticità che oggi manca e che allora rese credibile anche l’accusa verso la fine del viaggio: "Io so, ma non ho le prove". Oggi tutti sanno, senza neanche cercare le prove nella "dilagante presunzione social", per rubare una frase a Michele Serra, "senza dolore, senza cicatrici, senza mai rischiare niente". Senza Pasolini, dunque.
Liberato da questa velleitaria esigenza, limitandoci alla lettura, allo studio, all’affetto e (esagerando) alla comprensione, Pasolini può tornare, la sua voce d’artista - così sottile, stonata e sensuale - può sibilare nell’aria, il suo corpo nervoso e vissuto tornare a muoversi, a filmare, a urlare, provocare e pestare i campi. A volare, a vivere come gli uccelli del cielo e i gigli dei campi (Transumanar e organizzar). A giocare, di sicuro a calcio. Cominciò presto ai Prati di Caprara, periferia occidentale di Bologna che nel 1805 ospitò la sfarzosa parata in onore di Napoleone, in visita alla città. Rimase zona militare ma nella vastità del bosco si riuscì a costruire anche il terreno di gioco del Bologna del primo Novecento e intorno rimase spazio per lo svago spontaneo dei ragazzi: fra loro, scattava e dribblava lo studente Pier Paolo Pasolini, emulo di Amedeo Biavati detto Medeo, ala destra (si legge: inventore del doppio passo!) del Bologna degli anni Trenta, la squadra che faceva tremare il mondo. Le testimonianze concordano: Pasolini era bravo, Stukas era lo strano soprannome, dal bombardiere tedesco che fischiava sopra le città ferite dal conflitto. La veloce ala s’incuneava ferale come una picchiata, allarmando e terrorizzando le difese come le sirene dell’aereo di guerra.
L’aneddoto, allora. Nel 1975, pochi mesi prima della tragica morte, Pasolini radunò il cast e la troupe di Salò o le 120 giornate di Sodoma, il suo ultimo film girato nei dintorni di Parma e lanciò la sfida a Bernardo Bertolucci, che nelle stesse campagne stava girando Novecento. Cominciò una furiosa preparazione dell’incontro e Pasolini realizzò il sogno d’esser presidente, allenatore e giocatore insieme. Bertolucci fu invece astuto manager, “affittando” per l’occasione qualche giovanotto del Parma. I Novecento vinsero per 5-2. Un gol lo segnò il quindicenne Carlo Ancelotti, arruolato come finto attrezzista: "Ma Pasolini non la bevve – raccontò Carletto ad Andrea Schianchi, qui sulla Gazzetta – e si accorse subito che non tutto era regolare, ma aveva talmente voglia di giocare che passò sopra alla bugia di Bertolucci. Loro, l’undici di Pasolini, erano bellissimi nelle divise rossoblù. Lui portava la fascia di capitano al braccio sinistro. Aveva la faccia scura, rabbuiata dalla sconfitta e da un infortunio, uscì zoppicando per un brutto fallo". La citazione Nell’ultima pagina di Una vita violenta, in cinque righe di “avvertenza” l’autore scrive: "I riferimenti a singole persone, fatti e luoghi reali qui descritti sono frutto di invenzione: vorrei tuttavia che fosse ben chiaro al lettore che quanto ha letto in questo romanzo è, nella sostanza, accaduto realmente e continua realmente a accadere". Smettiamo di evocare Pasolini. C’è ancora, basta leggerlo.
Pasolini provava intenso piacere nel gioco, nella fatica, ne fu entusiasta testimone ("sono stati indubbiamente i pomeriggi più belli della mia vita. Mi viene quasi un nodo alla gola, se ci penso") e restano cronache, aneddoti e foto di lui vestito in abito, maglione scollato, cravatta e mocassini, in torsione con la palla sull’interno destro, e la polvere che si alza dal campo. Il tormento intellettuale lo stimolava a dare spessore alla passione, da qui il tentativo di sovrapporre un linguaggio dei segni al gioco, con suggestioni superiori alla lezione, e il tentativo di stilizzare i miti dell’epoca secondo metrica, fra prosa e poesia, fra Bulgarelli "prosatore realista" e Rivera "prosatore poetico" (Mazzola è "elzevirista ma più poeta di Rivera, ogni tanto inventa lì per lì due versi fulminanti"). Riva "è poeta realista". Restano le fiammate espressive, il calcio come "rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione". E il gol come sovversione, disobbedienza alla diplomazia del pareggio: "Ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica. Il capocannoniere del campionato è sempre il miglior poeta dell’anno". Quella stagione lo fu Savoldi. Questa era la sua ricerca, incessante, intellettuale. Il suo consumarsi per dare significato alle cose, per penetrare l’umanità e comunicare con gli sbagli del mondo, rimestare insieme alla creature, a Tommasino e al Riccetto.