Error code: %{errorCode}

Yelverton: "Ho insegnato la difesa al 12enne Kobe. Quel sassofono di Jabbar mi ha cambiato la vita"

Gazzetta

Il 1° febbraio 1972 i Portland Trail Blazers attendono i Phoenix Suns in una delle loro 82 partite di regular season nell’Nba. È l’America sconvolta dal conflitto senza fine in Vietnam e avvolta da una spirale di contestazioni che non risparmia neppure il presidente Nixon. Quando sul campo risuona l’inno prima della partita, un giocatore decide di rimanere seduto: è il suo modo, civile, di protestare contro il razzismo sempre strisciante e contro una guerra senza senso che chiede il sacrificio di migliaia di giovani vite. Quell’uomo si chiama Charlie Yelverton, e dopo quel gesto dovrà abbandonare per sempre la lega che lo aveva accolto da appena pochi mesi: un sogno infranto. Intanto, qualche ora prima, a Varese, a migliaia di chilometri di distanza, si è consumato un piccolo dramma sportivo: la squadra di casa ha perso di un punto ai supplementari contro gli odiati rivali di Cantù in un derby caldissimo. Una sconfitta che costerà carissima: l’Ignis concluderà la stagione al primo posto però a pari punti con il Simmenthal Milano e perderà lo scudetto nello spareggio di Roma. Charlie e la Città Giardino non sanno ancora che quel giorno i loro destini si sono legati indissolubilmente.

Dopo la cacciata da Portland, il primo approdo in Europa, in Grecia.

"Feci una tournée estiva in Italia, gente dell’Olympiacos mi vide e mi portò ad Atene. Ma dopo il colpo di Stato sono tornato in America e per tirare avanti ho fatto pure il taxista: mi permetteva di allenarmi a casa dopo che avevo finito il mio turno".

Fino alla chiamata di Varese nel 1974.

"Non giocavo da qualche mese, anche se mi tenevo in forma, e si sono fidati. Ero lo straniero di Coppa, vincemmo la Coppa dei Campioni del 1975 senza perdere neppure una partita. Una squadra eccezionale: Gualco, Bisson, Ossola, Rusconi...". 

E Meneghin...

"Il leader. Esprimeva grande personalità, sapeva distinguere il momento in cui bisognava scherzare da quello in cui era necessario spronare compagni e ambiente. Quando diventava serio lo ascoltavamo in silenzio. E avevamo un grande allenatore, Sandro Gamba". 

Di lei si diceva che rimanesse sospeso per aria e non scendesse mai, per cui era impossibile difendere sui suoi tiri.

"Era una qualità che ho affinato quando ero ragazzo e poi al college: avevo l’abitudine di salire i gradoni dei palazzetti in diagonale per rinforzare i muscoli delle gambe e poi saltare giù". 

Ma c’è stato qualche avversario capace di contenerla? 

"Quel diavolo di Bariviera. Era furbo, mi marcava a uomo e quando cominciavo il movimento di tiro, senza farsi vedere dagli arbitri, mi dava un colpetto sul gomito". 

La sua dote migliore come giocatore? 

"Sembrerà strano, ma credo di essere stato soprattutto un grande difensore. Ho imparato il basket nei playground di Harlem, dove non esistono regole e dove per prima cosa devi impedire agli avversari di segnarti in faccia. Alle scuole elementari, mi facevano giocare contro bambini più grandi di me di due anni, ho dovuto crescere in fretta se non volevo essere travolto".

A proposito di difesa: si dice che lei fu il primo a dire a Kobe Bryant che nel basket non si deve solo fare canestro... 

"Fu a un camp che organizzavo all’Abetone, era il 1990, me lo portò suo padre Joe. Kobe aveva 12 anni, si intravedeva già un talento pazzesco, però quando aveva la palla non la passava mai e cercava sempre di tirare, e poi non rientrava a difendere. Quando gli chiesi chi era il suo idolo, lui mi rispose “Michael Jordan”. Allora lo presi da parte e gli dissi di guardare i suoi video, e di valutare se le giocate decisive fossero quelle in attacco o in difesa. E gli insegnai pure a migliorare il palleggio con un esercizio che avevo inventato io, partendo da sei posizioni diverse della palla attorno al corpo. Qualche anno più tardi, quando Kobe firmò il suo primo contratto milionario con i Lakers, suo padre mi mandò scatole e scatole di materiale tecnico, accompagnate da un biglietto: 'Senza di te questo non sarebbe stato possibile'". 

Qual è stato secondo lei il giocatore più forte di sempre?

"Nell’Nba, Elgin Baylor e appena sotto Oscar Robertson. Ma il più grande di tutti è uno che in Nba non ci ha mai giocato, Joe Hammond. Era il re di Rucker Park, il playground più famoso di Harlem: una volta segnò 50 punti contro Doctor J Julius Erving. Ma la cosa straordinaria è che li fece in un tempo solo...". 

Ci racconti della sua passione per la musica.

"Mi è stata tramandata da mio padre, Charlie Roscoe, lui amava la “salsa”. Ho suonato il sassofono fin da bambino, ero portato. Poi una partita a scacchi con Kareem Abdul Jabbar mi ha cambiato la vita". 

Cosa successe?

"Ci conosciamo fin da ragazzi, siamo entrambi di New York anche se lui viene dal Bronx: e poi ci siamo sfidati al liceo, lui alla Power Memorial e io a Rice, un po’ come Milan e Inter. Quando sono andato a giocare a Milwaukee con i Blazers, mi ha invitato a casa sua, avevamo entrambi la passione per gli scacchi. In soggiorno aveva un Selmer, la marca di sassofoni più celebre del mondo. Quando seppe che avevo un sax anch’io, ma di qualità decisamente inferiore, si offrì di vendermi il suo. Lo pagai cento dollari, ne valeva più di mille".

È lo strumento che l’accompagna ancora nelle sue serate. 

"Non ho mai inciso cose mie, non mi è mai interessato. Sono sempre stato un esecutore, anche se adesso ho l’artrosi alle mani e la bocca un po’ storta, perciò ho dovuto ridurre il repertorio. Però mi diverto ancora".